Da bambino giocavo a pallone in cortile per interi pomeriggi. Le squadre erano quasi sempre le stesse e il tutto si svolgeva in una sorta di sospensione temporale in cui ognuno aveva un ruolo ben definito. C’erano sempre tante telecronache, visto che eravamo soliti accompagnare ogni azione descrivendoci ad alta voce, magari chiamandoci anche col nome di uno dei campioni dell’epoca.
Poi, senza che fosse dettato dalla noia o dalla necessità di un’improvvisa variazione dello status quo, arrivava sempre un momento in cui la realtà cambiava. Era arrivato il momento del “tutti contro tutti”. Non stiamo parlando del consolidato utilizzo del ruolo di portiere volante, di cui già abusavamo normalmente per evitare la staticità del proprio turno a difesa della porta.
Il “tutti contro tutti” era un momento di pura anarchia in cui ognuno giocava per sé stesso e aveva l’obiettivo di scartare gli altri e realizzare un gol che rappresentava la forma più pura d’individualismo. Allora pensavo che fosse tutto bellissimo e lecito per via di una sorta d’inconscia consapevolezza di essere bambino o forse soltanto perché si trattava di un gioco e mi ci divertivo. Ero però certo che da grande il mondo sarebbe stato diverso e decisamente più serio, corretto e caratterizzato da valori di ordine assoluto.
Tra pochi mesi compirò quarant’anni e ogni giorno, in ogni contesto della mia vita, vedo persone che si comportano esattamente come nel “tutti contro tutti”. Non lo dico per motivi di coscienza o perché mi senta intimamente più onesto degli altri, ma proprio non riesco ad accettare che la sola via che porta all’auto-realizzazione transiti attraverso tutto questo egoistico marciume.
Certo, ci sono momenti in cui la tentazione è davvero forte ma, in tutta sincerità, mi accontento di fare il portiere volante rischiando di subire un gol per aver lasciato la porta sguarnita mentre affronto la squadra avversaria insieme ai miei compagni.