Adriano

Io purtroppo non ho assistito alla vicenda, ma ho avuto modo di riviverla in video decenni più tardi. Da appassionato di tennis quale sono, resto colpito dalla portata degli avvenimenti di quei giorni e mi trovo a rivalutare quel retaggio tennistico italiano che ormai è solo uno sbiadito ricordo. Applauso!

Panatta e le magliette rosse
“Così sfidai il dittatore Pinochet”

L’impresa della Davis del 1976 ora diventa un film di Mimmo Calopresti. Adriano rivela: “Fu Enrico Berlinguer a farci arrivare il messaggio che sbloccò l’ipotesi del boicottaggio. Ci disse che dovevamo andare a Santiago e vincerla quella Coppa e io nel match decisivo indossai una divisa particolare davanti ai gerarchi di quel regime, ma fu dura convincere Paolo Bertolucci”
di GIOVANNI MARINO

Politica e tennis entrarono in rotta di collisione nell’anno d’oro delle racchette italiane, il 1976. La squadra azzurra era a un passo dalla Davis. Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli avevano conquistato la finale battendo Polonia, Jugoslavia, Svezia, Inghilterra e Australia. E l’occasione era ghiotta. Dall’altra parte della rete avrebbero incontrato il Cile, team non all’altezza del nostro. Ma bisognava andare a giocare a Santiago, in casa del dittatore Augusto Pinochet, nel pieno del suo regime. E la politica, sinistra in testa, spingeva per boiccottare la finale, programmata per la seconda metà di dicembre.

Il dibattito, in breve, si incendiò. Il Paese aveva tanti problemi – era stato l’anno del devastante terremoto in Friuli, dello scandalo Lockheed, il terrorismo era una costante e cupa emergenza – eppure la polemica sul viaggio in Sudamerica prese decisamente il sopravvento in quell’autunno.

Sul tema, il governo Andreotti tentenneva. Il Pci era molto critico. I partiti di estrema sinistra nettamente contrari. Coni e Federtennis, attendisti. Ma il capitano Nicola Pietrangeli e i quattro tennisti non volevano assolutamente rinunciare. Se ne faceva un gran parlare: in tv, alla radio. Un gruppo di giovani arrivò ad occupare i locali della Federtennis urlando “Non si giocano volée con il boia Pinochet”. Cortei e cori presero di mira Panatta, reduce da una stagione felice in cui aveva conquistato, uno dietro l’altro, i due più importanti tornei del mondo su terra rossa: Roma, sconfiggendo l’argentino Guillermo Vilas; e Parigi, battendo l’americano Harold Solomon.

“Panatta milionario, Pinochet sanguinario”, era lo slogan più frequente. Adriano, campione bizzarro, aria strafottente ma animo di sinistra per tradizione familiare, soffriva la contestazione. E sentiva di trovarsi a un bivio. Lui, il figlio del custode dei campi del Parioli, deriso e additato come un giocatore viziato e insensibile. La situazione era complicata. Ma poi accadde qualcosa che sbloccò quell’impasse. Una vicenda ora rievocata dal film del regista Mimmo Calopresti “La maglietta rossa”. “L’ho chiamato così – spiega Calopresti – da una provocazione che Adriano s’inventò poche ore prima dell’incontro decisivo, uno dei due segreti che mi ha svelato nel film”.

Il primo è legato al ruolo di Enrico Berlinguer. Decisivo. Il segretario del Pci fece arrivare un messaggio chiaro a quegli atleti improvvisamente travolti dalle polemiche. Panatta la racconta così: “Era la base dell’estrema sinistra la più agitata. Ascoltavo quelle urla e ci rimanevo male; non sono mai stato comunista, perché colpito dalle privazioni che subivano i miei colleghi dell’Est, ma sono sempre stato di sinistra, influenzato anche da mio nonno Luigi, che fu amico di Nenni. Quei giovani che mi insultavano non conoscevano nulla di me e intanto non si sapeva ancora se avremmo disputato la finale. Fu Ignazio Pirastu, al tempo responsabile della Commissione Sport del Pci, a farci arrivare l’inattesa notizia: per Berlinguer dovevamo andare in Cile. E voleva lo sapessimo. Per il segretario del Pci non sarebbe stato giusto che la Coppa finisse nelle mani del Cile del regime-Pinochet piuttosto che nelle nostre. Da lì in poi la strada verso la partenza si fece in discesa. Fu come un liberatutti. Il governo Andreotti disse che lasciava libero il Coni di decidere, quest’ultimo lasciò libera la Federazione e di fatto ci ritrovammo a Santiago, liberi di vincere. Grazie a Berlinguer”.

Adriano conobbe alcuni dettagli solo anni dopo, “Come il fatto che Berlinguer si era in qualche modo sentito con il leader comunista cileno Luis Corvalan e che quest’ultimo lo aveva messo in guardia sulle ricadute politiche, favorevoli al dittatore, di un eventuale boicottaggio”. In realtà, dietro l’intervento del segretario del Pci, spiegò in seguito lo stesso Pirastu, ci fu proprio il concreto rischio che l’ipotesi boicottaggio potesse saldare un improvviso consenso nazionalistico in Cile, utilizzabile poi da Pinochet.

Nel film si alternano scene d’epoca all’attualità. “Sono riuscito a riportare in campo Adriano – dice Calopresti – no dei passaggi più belli è quando mi illustra come si sta in gioco: ‘Guarda Mimmo, un attaccante deve stare qua’. E fa tre passi avanti. Non mezzo in più, altrimenti sei fuori posizione. ‘Borg invece restava più indietro perché aveva una mobilità incredibile. McEnroe sceglieva quel triangolo, lo vedi? E’ una zona dove puoi calamitare il gioco’. Ho assistito alla presa di possesso del campo”.

Superati incertezze e veti, dunque, il 17 dicembre 1976 l’Italia si gioca la Davis. In un clima surreale. Panatta ricorda tutto come fosse oggi: “Era strano, avevamo una scorta imponente. Io cercavo di intervistare i guardiani del campo, i ragazzi dell’albergo, volevo capire: ma avevano paura di parlare. Però lo stadio non era quello dei deportati, come ancora oggi erroneamente si insiste a dire. Pinochet non venne mai. Ma c’erano alcuni generali in tribuna d’onore e un pezzo grosso: Gustavo Leigh Guzman”.

I primi due singolari filano liscio: Barazzutti batte Fillol e Panatta non ha problemi con Cornejo. C’è solo il doppio tra l’Italia e la Davis. Adriano sceglie di giocare il punto decisivo con una divisa particolare. “Al mattino, dopo l’allenamento, dico a Bertolucci: ‘Paolo oggi ci mettiamo le magliette rosse’. E lui, di getto: ‘Ma sei matto, qui ci arrestano o ci fucilano’. Insisto: ‘Dai, non lo vedi che siamo super-protetti?’. Replica: ‘No Adrià, lasciamo perdere’. Segue una animata discussione in romanesco che non ripeterò. Lo prendo per stanchezza: ‘E fammi fare questa provocazione’. Cede, brontolando ancora. Il doppio lo vinciamo in quattro set, Fillol e Cornejo indossano polo bianche ‘Adidas’ e calzoncini celesti. Io e Paolo, ‘Fila’ rosso fuoco e calzoncini bianchi. Credo che i militari sudamericani non furono felici delle nostre magliette rosse: seppi poi che le autorità cilene avevano inviato una specie di nota di protesta al nostro governo tramite l’ambasciata. Naturalmente, rifarei tutto”.

Trentatre anni dopo, la scelta di Panatta ha ispirato un film. “E io, che pure da ragazzo manifestai contro la spedizione in Cile, oggi sto con Panatta e Berlinguer – sottolinea Calopresti – perché alla fine, nell’albo d’oro, è rimasto il nome dell’Italia e non quello del Cile epoca-Pinochet. E non mi sembra affatto poco”.

Già, ma che fine ha fatto la maglietta rossa? “E chi lo sa? – risponde con disarmante sincerità Panatta – non trovo più neppure le coppe di Roma e Parigi. Chissà dove si sono perse. Ma l’importante, credo, è che vincano i ricordi”.

http://www.repubblica.it/2009/05/rubriche/la-storia/panatta-cile/panatta-cile.html?rss

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