Una settimana fa Instagram ha iniziato un test che ha come scopo il verificare come si comportano gli utenti non potendo vedere il numero dei like presenti su un singolo post. In sintesi l’autore del post è il solo a sapere quanti cuoricini ha ottenuto la sua nuova creazione ed i suoi follower non vengono condizionati dalla quantità di like che vedono. Instagram, come certamente saprete, è il secondo social media del pianeta e azienda appartenente alla grande famiglia Facebook, ma soprattutto è la piattaforma preferita da giovani e giovanissimi. Lo scopo dichiarato di cotanto esperimento consiste nel verificare quale possa essere il comportamento degli utenti senza il condizionamento numerico, ovverosia non vedendo tanti like su di un post dovrebbero sentirsi più liberi di valutarne il reale contenuto e la sua vera qualità. Lo stesso vale per gli autori dei post (influencer compresi) i quali dovrebbero concentrarsi sul produrre contenuti di maggiore qualità non potendo più sfruttare l’effetto gregge per ottenere cuoricini o più precisamente un elevato engagement. Tutto molto bello, lodevolissima iniziativa. O forse non è esattamente così!?Se invece il Re fosse nudo?
Perdonatemi ma mi sento in dovere di produrre alcune considerazioni, partendo da quelle “di servizio pubblico”.
- Innanzitutto il test non è affatto una novità dal momento che in Canada è iniziato ad aprile e “il 70% degli utenti ne è contento” come dichiara Instagram stessa;
- Attualmente le nazioni coinvolte sono: Australia, Brasile, Irlanda, Italia, Giappone e Nuova Zelanda. Quindi non stiamo affatto parlando di tutto il mondo;
- Nella versione desktop (app o da browser) è sempre possibile vedere il numero di like degl’altrui post;
- Il sottoscritto ha ogni dispositivo personale impostato sulla lingua inglese (termostato e lavasciuga inclusi) e vedo le stesse cose di prima. Se non fosse sufficiente il cambio di lingua dell’app, potete sempre cambiare la vostra nazione di appartenenza dalla configurazione dell’app mobile, continuando a vedere tutto.
Passo ora ai miei personalissimi commenti in merito a quanto ho letto durante la scorsa settimana, ma permettetemi una premessa. Sono ormai anni che i dinosauri della comunicazione 1.0 si ostinano a voler ricondurre sempre ai soliti archetipi qualsiasi cosa provenga dall’internet. Non sono bastati la Brexit, le presidenziali americane e nemmeno il nostrano referendum o l’attuale compagine di governo per far capire a costoro che non esiste un “popolo del web” e che nemmeno “la rete insorge”, giusto per citare alcuni luoghi comuni. Quella è la gente! Sono le persone del mondo reale e sembra quasi che stiate sistematicamente cercando un modo per descriverle in un editoriale di “Dentiera Oggi” o di “Geriatria Terzo Millennio”.
No, non è solo un approccio propedeutico a trasmettere messaggi che viceversa la popolazione anziana – sempre pià anziana – del paese Italia non capirebbe. Direi più che altro trattarsi di un freno a mano tirato che si manifesta anche in piccoli errori. Giusto per fare un esempio, i tanto citati Millennials ora hanno dai 22 ai 38 anni e di certo non mi pare siano proprio i ragazzini di cui si parla associandoli ad Instagram. Certo, il termine richiama il latino ed è più memorizzabile rispetto a Generation Z, ma è ora di smetterla e di tornar giù dalla ionosfera.
Andiamo un po’ sul concreto ora.
Ma è possibile che ogni volta in Italia ci si debba profondere in analisi sociologiche e psicologiche relativamente a qualcosa che per sua natura è tecnologia e non solo umanesimo tecnologico? Articoli a profusione in merito a cosa cambia nella vita degli utenti Instagram e come si comporteranno ora che non potranno più bearsi narcisisticamente dell’aver preso più like dell’amico o di quanto possa essere in pericolo la professione dell’influencer, che peraltro viene descritta peggio di quella di un politico corrotto o di un mafioso. Fiumi di parole ma nessun riferimento al mondo reale. Sì, quello della tecnologia e del business che questa sottende. Peggio ancora sono gli scritti che vivono di allarmismo con cenni vagamente tecnologici tipo: “Autostima vs. senso di inferiorità” o “Potenziale crescita dei profili con follower comprati”. Ma perchè dev’essere tutto gossip in Italia?
- Instagram non ha affatto a cuore i comportamenti spontanei degli utenti (se non a scopo di lucro) e nemmeno l’evitare l’effetto gregge o lo stimolare le persone a produrre contenuti di qualità. Loro i dati li hanno sempre tutti e quello che stanno lentamente cercando di fare (pensate anche solo a come è cambiato l’algoritmo di Instagram ultimamente e cosa vi fa vedere) è di creare nuove formule a pagamento. Usi la piattaforma per lavoro? Allora paga e ti faccio vedere tutto!
- Medesimo discorso riguarda l’inibizione all’accesso dei dati da parte di strumenti online di analisi esterni. Fino a pochi mesi fa molti erano gratuiti, ora in molti chiedono una sottoscrizione a pagamento;
- “Data is the new oil” dicono in america. Molto modestamente io dico da vent’anni che il dato è come il maiale: non si butta via niente!
- Lo scandalo di Cambridge Analytica e dell’uso strumentale dei dati Facebook non ha minimamente scalfito la ferrea volontà (o insipienza digitale che dir si voglia) delle persone che ambiscono ad avere una presenza social interpretandola come fossero nella casa del Grande Fratello. Temo che Orwell avesse ragione ma sottovalutasse le corporazioni.
So che mi state leggendo, avverto la vostra presenza. So che avete paura di noi, paura di cambiare. Io non conosco il futuro, non sono venuto qui a dirvi come andrà a finire, sono venuto a dirvi come comincerà. Adesso finirò di scrivere e farò vedere a tutta questa gente, quello che non volete che vedano. Mostrerò loro un mondo senza di voi, un mondo senza regole e controlli, senza frontiere e confini. Un mondo in cui tutto è possibile. Quello che accadrà dopo, dipenderà da voi e da loro.
il vostro amichevole AvatarNemo di quartiere
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